Sussurri tra le pagine

“I soldati piangono di notte” di Ana Maria Matute: recensione libro

Secondo volume della trilogia “Los Mercaderes” di Ana Maria Matute, “I soldati piangono di notte” conferma e sublima lo straordinario talento della sua autrice, che ancora una volta, in nome della propria esperienza passata, si concentrerà sugli effetti che la guerra civile spagnola ebbe sulle categorie più fragili, non bambini, come nel primo romanzo della trilogia, ma ad essi, in qualche modo, equiparabili.
 
Il romanzo prosegue la narrazione dal punto in cui era stata interrotta in “Ricordo di un’isola”, difficile quindi trattarne la trama senza tradire anticipazioni sul finale del precedente. Anche in questo caso, si
tratta di un romanzo di memorie, con la differenza che i protagonisti saranno due giovani, legati prima di tutto da una perdita, e che racconteranno sé stessi mentre proveranno ad affrontare l’ignoto futuro in nome di un ideale che mai comprenderanno realmente. Spinti, quindi da un senso di dovere e memoria autoimposto, durante questo lungo e tedioso viaggio, i due ragazzi si metteranno a nudo rivelando aspetti comuni delle proprie (differenti ma altrettanto simili) esistenze: entrambi costretti, imprigionati tra alte mura (neanche troppo metaforiche), obbligati a pretendere una libertà giusta e di cui, poi, non sapranno che farne, confusi, storditi, indifferenti alla vita, ignoranti in amore, senza cuore all’apparenza, anestetizzati al dolore, volutamente incapaci di offrire compassione a chi non ne ha mai conosciuta, inabili a liquidare la cattiveria umana, solo come parte del disegno per un destino migliore. Loro due, soli, avanzeranno uniti, annaspando, con il loro bagaglio di infanzie interrotte, rivelato solo in confessioni, che nessuno vorrebbe ascoltare. “Scese un gran freddo; si sentì spaventosamente nuda, spiata da migliaia e migliaia di occhi. Altre ragazzine nude e paffute, spesso pingui, giacevano nell’album con la loro infanzia esacerbata, sdraiate, come tristi cadaveri di bambole, vestite – quelle che lo erano – con i suoi stessi abiti di un’infanzia protratta e indecente, proprio come sua madre, per ragioni diverse, l’aveva obbligata a vestirsi. Camicette alla marinara sudicie sopra piccoli seni tondi di donna.”
 
Si ritorna, dunque, sull’amara isola, già descritta da Matia nel primo romanzo, quando ormai anche i pochi ricordi piacevoli resteranno incastrati tra relitti di barche e fori di proiettile, lì dove un giovane perse due padri che mai si dimostrarono tali, ora, che di uno di essi non restano altro che un ragazzo a portare sulle spalle la croce dell’eccessiva bontà ed “ossa maltrattate” di “grande burattino dimenticato in un letamaio.” Eppure, quando i confini della narrazione si allargheranno, anche la voce proveniente dal continente suonerà come un grido strozzato, una richiesta d’aiuto per la libertà calpestata, per le donne, oggetto o fautrici della crudele violenza, per una ragazza abbandonata ai suoi sogni di bambina in età adulta, per la morale con le sue pretese e per le bocche affamate dal declino del fasto, che pretendono pietas da chi crescendo di stenti, non ha mai conosciuto lo sperpero. “Ho trovato io il corpo spezzato e scomposto di un uomo, come un grande e tragico burattino, crivellato di colpi sulla sabbia. La grande marionetta, il tragico pagliaccio, all’improvviso così, palese e chiaro, in tutta la sua crudezza.”
 
Ancora una volta, Ana María Matute, dimostra la sua grande capacità di intessere legami tra personaggi
Capo Formentor – Maiorca (2007, Brisckerly, GNU free Documentation License, Wikimedia Commons)
apparentemente del tutto differenti, e che si ritroveranno uniti da un sottile filo rosso capace di attraversare e sconvolgere le vite di ognuno: la morte. Si confondono il lutto, la sua elaborazione, l’abisso nel quale ci si cala alla ricerca insensata di un nome per quell’assenza pulsante, il dolore per la perdita che pur essendo del tutto personale lascia cicatrici simili su pelli diverse, ed il tutto finisce per generare una storia in grado di ripetersi quasi intatta: luoghi simili, parole identiche, occhi umidi, domande ovvie e lo stesso tonfo, solo, nel petto di qualcun altro. Un romanzo che inizia da una fine, quindi, che come una sciabola si abbatte sulle vite, recide, trancia e distrugge, ma che allo stesso tempo scuote l’animo umano pretendendo reazione e vita. “È morto, tutto qui, morto, e soverchiato da noi che siamo vivi, da noi che continuiamo a respirare ogni giorno. A ridere, piangere, arrabbiarci, rallegrarci, tacere. Vivi, calpestiamo la terra, impastata di volti e occhi e mani come Jeza, e ossa, come Jeza, e succhi nerastri liquefatti, come Jeza, e buchi macabri e bui, come Jeza. Le cose stanno così, non c’è più niente da dire. Jeza è morto, la faccia incollata alle ossa come una crosta di fango sul punto di creparsi. E gli occhi, così, come due pezzi di vetro, non sono occhi, non sono niente: neppure le foglie dorate e viscide dell’ultima primavera, sulla terra bruciata. Neppure questo. Neppure paura, facevano. Morto, è solo morto”
 
La prosa dell’autrice, pur confermandosi densa e poetica, perde parte della sua frammentarietà, riflettendo così, il cambiamento nei suoi nuovi protagonisti. Se in “Ricordo di un’isola” con Matia, bambina incapace di comprendere alcune complessità che attraversarono la sua infanzia, i ricordi assumono forme confuse ed evanescenti, con i due giovani e più consapevoli protagonisti di “I soldati piangono di notte”, la scrittura diventa più cruda, violenta, ed il tono meno rarefatto e più incalzante. Si abbandona la dimensione quasi onirica del primo romanzo, per arrivare ad una visione più crudelmente concreta, introspettiva, spesso caustica e folgorante. L’innocenza che Matia si avviava a perdere, entrando nel mondo adulto, lascia spazio a due protagonisti più maturi, che abbandonati i dubbi infantili si racconteranno in termini meno delicati, così come gli stessi loro sguardi, perderanno il tocco di acerba leggerezza, sostituito dal più triste disincanto. “Non sono un bravo ragazzo. Sono un ragazzo sbagliato e ribelle che non rispetta la legge, né l’onore, né i lutti, né la gioia, né la logica e decorosa copertura degli irreprensibili abitanti di quest’isola. Non sono un bravo ragazzo, non accetto la violenza e la menzogna che coprono pietosamente le colpe, la vergogna e il malessere della terra. Non sono un bravo ragazzo, sono un indecente adepto della verità, un immorale vivisettore”
 
La caratterizzazione dei personaggi è attenta e meticolosa, ed i racconti di entrambi i protagonisti, si dipaneranno mediante una tecnica narrativa che alterna discorsi diretti, a lunghe digressioni racchiuse in
Ana María Matute
parentesi. I primi per riportare ciò che un personaggio sceglie di rivelare all’altro, le seconde riflettono, invece, il flusso dei pensieri interiori dello stesso. A questi due punti di vista, che alternandosi, tracciano la sagoma dei due giovani a partire dal loro passato, si aggiunge quello del narratore esterno onnisciente, che interverrà, a sua volta, per mettere a parte il lettore, di fatti ed avvenimenti non descritti dai protagonisti. Si procede, quindi, su più livelli, con un punto di vista sempre mutabile, una lettura introspettiva e coerente dei personaggi ed una cronologia dispettosa, che spesso alterna passato, presente e previsioni future, con un risultato assolutamente splendido. “Una lama taglia, di colpo, tutti i legami, i torbidi ormeggi che l’essere umano intesse con la terra, navi che non vogliono partire.”
 
La guerra civile, continuerà ad essere sull’isola, una realtà lontana, ma i suoi effetti inizieranno ad essere sempre più concreti. Se per alcuni sarà già cosa ormai vecchia, per altri, rimarrà viva nel ricordo di un ometto che punta la pistola e giudica i suoi simili (“non simili a lui, naturalmente”). Di essa resteranno solo le regole imposte ad un mondo più crudele e traditore, mentre il bianco che un tempo indicava purezza, diventa il colore della rabbia nascosta dentro la bara di un bambino. ”In tutta quest’oscurità, nell’ombra del corpo immobile di Es Mariné, posso sentire il grande lamento; un lento requiem, come l’occulta voce del mondo, che si avvicina a un crepuscolo senza tempo: non c’è ieri né oggi, solo una lunga, bianca, inerme regione, senza terra né mare, dove palpitano le grida degli uomini che chiedono pioggia, delle donne che chiedono amore, dei bambini che alzano al cielo inutili bilance, su cui la giustizia, il bene e il male non hanno lo stesso peso: il mondo, qui, ora, perde le sue dimensioni, e qualcosa, forse un’enorme lingua, passa umida sulla terra. L’ampia lingua della fame e della sete.”
 
“I soldati piangono di notte” è un romanzo che ho molto amato, più del suo precedente, soprattutto per la maggiore concretezza. Un libro che esplode tra le mani, potente, in grado di dar voce alle rinunce imposte, alle ribellioni incaute, alle fughe obbligate, agli strappi dolorosi, al disprezzo silenzioso, al racconto di un passato bruciante, alle scelte sbagliate e a quelle impulsive, alla pura follia e alla tristezza feroce, alla perdita di ogni speranza ed alla “febbre divoratrice” di un ideale, che rese pazzo chi lo abbracciò, delinquente chi lo abbandonò, ed inerme chi per esso combatté, restando poi, immobile, in attesa del cambiamento. “I Taronjí, con l’odore dei roghi di un tempo sulla pelle, odore di un’antica carne bruciata, che ardeva sulle pietre della piazzetta, che saliva fino agli occhi e ai denti e ai canini assetati sul pallido viso, con gli occhi cerchiati di scuro, come il fumo della sfolgorante, diabolicamente luminosa carne bruciata, un fumo grasso, che impregnava gli abiti e il sorriso freddo e fisso; e la paura, come l’odore terribile di un’antichissima carne bruciata, di antichissime ossa dissotterrate e bruciate, di antichissimi cadaveri dissotterrati e bruciati, con ciocche di capelli vecchi e putridi che spuntavano dai crani pelati. I Taronjí, i cui passi erano seguiti da un rullare remoto che odorava di cero fra mani legate; e qualcosa che era il loro stesso rullare, quello della grande vendetta e della lunga catena nera del sorriso servile verso il signore”

La vita è questo: un mercante tarchiato e paziente, seduto sulla soglia della bottega, del banco, del bugigattolo: in attesa, con un luccichio contenuto e acido negli occhi piccoli. Conosco bene quest’immagine. La vita è quest’immagine.

“I soldati piangono di notte” di Ana Maria Matute, edizione Fazi.

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Angela Finelli

Classe 1987. Nata a Napoli, tra i vicoli e l'odore del ragù lasciato a "pappuliare" a fuoco lento già dall'alba. Amante dei libri da sempre, della buona cucina e delle mete insolite. Dipendente dal caffè, dalle risate spontanee e da quella punta di follia che rende la vita imprevedibile. Fiera sostenitrice del potere delle parole e dei sussurri nascosti tra le righe, quelli che lasciano un'impronta nella memoria e i brividi sulla pelle.

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