Centenario Italo Calvino

La letteratura italiana sulla Resistenza: l’articolo di Italo Calvino sulla rivista “Il movimento di liberazione in Italia” del 1949

Nel numero 1 della rivista «Il movimento di Liberazione in Italia. Rassegna bimestrale di studi e di documenti», datato 1949, Italo Calvino rifletteva a proposito de La letteratura italiana sulla Resistenza. Un articolo di approfondimento che l’ex partigiano Calvino scrisse per riflettere sull’impatto dell’azione partigiana sulla letteratura.

Ecco l’articolo integrale scritto da Italo Calvino nel 1949.

Italo Calvino, La letteratura italiana sulla Resistenza

Un primo bilancio delle opere letterarie italiane sulla Resistenza pubblicate a tutt’oggi, può dar luogo a discorsi e giudizi tutt’affatto differenti, a seconda che ci si ponga dal punto di vista della Resistenza o da quello della letteratura. Perché a chi si chieda se la letteratura italiana ha dato qualche opera in cui si  possa riconoscere « tutta la Resistenza », (e intendo « tutta » anche parlando d’un solo villaggio, d’un solo gruppo, «tutta» come spirito), un’opera letteraria che possa dire veramente di sé: «io rappresento la Resistenza», l ’indubbia risposta è: «Purtroppo non ancora». Mentre invece a chi si chieda se la Resistenza ha «dato» alla letteratura e ai letterati, se la letteratura italiana s’è arricchita, attraverso l’esperienza della Resistenza, di qualcosa di nuovo e necessario, io credo si debba rispondere risolutamente: «Si». Infatti, mentre gli scrittori già noti che all’esperienza della Resistenza si sono ispirati, non ci hanno dato altro (e mi riferisco soprattutto alla narrativa, ché per la poesia vale un discorso un po’ diverso), che il documento della loro posizione d’intellettuali singoli di fronte alla lotta, cioè opere in cui la Resistenza non è mai la protagonista, ma solo il termine di un’antitesi (e anche i giovani che si son voluti innestare nella tradizione letteraria della generazione precedente hanno fatto lo stesso, pur talvolta servendosi di simboli meno diaristici), d’altra parte, tra i libri che pur essendo concepiti con intenti letterari, hanno come prima preoccupazione quella rievocativa e documentaria, libri che dovuti spesso alla penna di figure eminenti del movimento partigiano, sono in gran parte d’indiscutibile valore morale e di una capacità naturale d’emozione non foss’altro che per gli argomenti trattati, si situano meglio nella storia d’una pur necessarissima diaristica e saggistica storico-politica, che nella storia della poesia.

Ricorderò tra questi, il bel. Diario Ponte rotto (Genova, 1945) del Comandante G. B. Canevari (Lasagna), quello di Pietro Chiodi (Valerio): Banditi (ed. Anpi, Alba, 1946), e un assai vivo Guerriglia nei Castelli romani (Einaudi, 1945) di Pino Levi Cavaglione. Interessante come documento del dramma d’una generazione è Classe 1912 (Arethusa, Asti 1945) di Davide Lajolo (Ulisse). Un voluminoso diario sul martirio di Boves ci ha dato il drammaturgo Nino Berrini: Il villaggio messo a fuoco (Bertello, Borgo San Dalmazzo, 1945). Un lucido e agghiacciante documento d’una tortura e di un eroismo è II mio granello di sabbia di Luciano Bolis.

Per una rappresentazione epica e corale della Resistenza non ci resta quindi che attendere e tendere alla rinascita, che dovrà pur avvenire, di tutta una letteratura, epica e corale, appunto, che non sia impari a tanto contenuto, cioè non sia lirica ed allusiva soltanto, come quella d’oggi. Ma m’interessa qui accennare a quello che la Resistenza ha significato per le lettere italiane: il realizzarsi, per la prima volta dopo molto tempo, d’un denominatore comune tra lo scrittore e la sua società, l’inizio d’un nuovo rapporto fra i due termini. Infatti, sia che lo scrittore partecipasse direttamente alla lotta, sia che semplicemente subisse l’invasione e i suoi pericoli insieme alla sua gente, egli riuscì a trovare l ’innesto tra i problematismi suoi e il sentimento collettivo e lo scrivere non poteva presentarglisi ora che in funzione «anche» di quest’ultimo. E ci sarebbe qui materia per uno studio assai più ampio di quello contenibile nei limiti che ci siamo imposti, per chiarire come la letteratura italiana avesse perso da tempo il desanctisiano ufficio di specchio della coscienza morale e civile della nazione, e quali vie la Resistenza le aprisse per tornare « letteratura nazionale » nella sua accezione moderna di « letteratura delle grandi masse nazionali attive », e di come e perché da una parte le mancò la forza di svilupparsi su questa via e quali esiti d’altra parte le rimangano ancora lusinghieramente aperti.

Un fatto significativo è che i risultati già raggiunti della letteratura della Resistenza, li abbiamo in opere di poca mole, poesie e racconti, sicché il libro letterario più rappresentativo della Resistenza non potrebb’essere altro che un’antologia. Si direbbe che siano la canzone partigiana e la storia partigiana raccontata, i due prodotti poetici di tradizione popolare e orale, che abbiano dato vita e linfa ai migliori di questi componimenti. La poesia offre, allo studio che abbiamo accennato in grandi linee, aspetti del maggiore interesse: la nuda parola degli ermetici, giunta all’estrema essenzialità d’un linguaggio interiore si è trasformata in una parola di coro, tutta sentimenti ed echi. E sono poesie gli unici, credo, importanti esempi italiani di una « letteratura della Resistenza » nel significato che questo termine ha avuto in Francia, cioè di scritti letterari composti, stampati e diffusi nel periodo clandestino: le poesie di Alfonso Gatto diffuse clandestinamente in migliaia di copie a Milano. La raccolta delle poesie partigiane di Gatto
(Il capo sulla neve, Ed. Milano-Sera, 1947) si può considerare a tutt’oggi la più piena testimonianza poetica dell’« uomo della Resistenza » sentito come un eterno e necessario prototipo umano. Forse mai come nei versi di Gatto, nelle sue parole che ci giungono levigate attraverso un lungo esercizio di poesia, ritroviamo la temperatura dei giorni e dei sentimenti della lotta.

Un altro libro di versi che la Resistenza ha ispirato è Col piede straniero sul cuore (Bompiani, 1946) di Salvatore Quasimodo, importante come adeguamento d’un linguaggio aristocratico e colto ai motivi della «poesia civile». Credo non vi siano da citare altri volumi di liriche dedicati interamente alla Resistenza: nel volume Foglio di via (Einaudi, 1946) di Franco Fortini, parecchie sono le liriche partigiane, che penso resteranno tra le migliori. Molti altri, poeti, da Sergio Solmi a Giorgio Caproni, hanno rievocato la lotta in poesie assai belle. La mancanza di testi di raccolta rende difficile una esposizione sistematica. E c’è da considerare, sparsa in mille giornali del dopo-liberazione, tutta una produzione d’un numero stragrande di poeti giovani e giovanissimi (dalla triestina Graziana Pentich all’alessandrino Gino Baglio, per citare due voci diversissime) che andrà pur studiata e catalogata e riserverà forse qualche sorpresa. Un discorso simile si può fare per i racconti. Il racconto partigiano forse un giorno avrà posto in un capitolo della nostra storia letteraria, come le cronache garibaldine del secolo scorso: ma più ancora che in quelle si può ravvisare in esso un interessante fenomeno di « letteratura di massa » quale l ’Italia non ne conosceva forse (esclusa la tradizione poetica dialettale) dall’epoca dei poemi cavallereschi e della novellistica classici. Spesso patetico e insieme truculento, il racconto partigiano nasce da ima tradizione orale (l’episodio vissuto e raccontato che fa a poco a poco il giro d’ogni vallata e d’ogni formazione) e ha avuto come trascrittori un numero stragrande di giovani sparsi in tutta Italia, che talvolta non avevano alcuna velleità né astuzia letteraria, e talvolta ne avevano fin troppe, ma sia gli uni che gli altri sono riusciti a far poesia solo quando son riusciti a fare la parte del poeta anonimo. Anche il loro stile è simile (mutuato dagli americani, si dice spesso, ma è un giudizio che andrebbe approfondito e ragionato). Questa produzione va rintracciata sulle terze pagine dei giornali di sinistra, sui settimanali partigiani, e con prove più rigorose sul «Politecnico» di ¡Vittorini che esercitò su questo materiale un’attenta opera di cernita. I nomi son quasi tutti cc nuovi»: citerò quello del giovanissimo versiliese Marcello Venturi come un
esempio dei più significativi di questo «genere».

Ed uno di loro è il novarese Angelo Del Boca i cui racconti partigiani del volume Dentro mi è nato l’uomo (Einaudi, 1948) si staccano assai dalla produzione poc’anzi esaminata per il piglio slanciato dello stile, tutto traboccante sentimenti; l’aspetto della guerra partigiana ch’egli ha ritratto è un sapore di giovinezza, d’avventura scalmanata ma trepida di pensieri e affetti. Questo per i partigiani diventati narratori; vediamo ora i narratori diventati partigiani. Il romanzo più noto (e quasi direi popolare) sulla nostra Resistenza è Uomini e no (Bompiani, 1945) di Elio Vittorini, lo scrittore che aveva dato in pieno fascismo con Conversazione in Sicilia in forma allegorica e profetica, un primo, e credo insuperato, testo alla «letteratura della Resistenza». Su Uomini e no molto s’è discusso e si discuterà. Dal pulpito delle lettere gli si imputa — e il primo a farlo è l’autore — il compromesso non risolto di cronaca e allegoria e interessi saggistici e contrappunto di stile; dal pulpito della Resistenza il cerebralismo del suo protagonista Enne 2, il suo inserirsi nel grande dramma collettivo in funzione d’un suo personalissimo dramma individuale, e perdersi con esso. Io non voglio ribadire né le une né le altre critiche: credo che Uomini e no, ossia la storia dell’intellettuale tra i Gap, sia stato un libro necessario, che a modo suo esaurisce l ’argomento dell’adesione d’un intellettuale di una determinata cultura alla lotta popolare. Quello che va criticato, e da un pulpito e dall’altro è secondo me il non aver fatto d’Enne 2 autobiografia sincera, ossia distaccata e partecipe insieme, ma esaltazione romantica, con tutta la sua disperata (e libresca e decadente) corsa alla morte.

Come Uomini e no, che fu il primo romanzo sulla Resistenza a esser scritto e pubblicato, anche l’ultimo uscito, Prima che il gallo canti (Einaudi, 1948) di Cesare Pavese, è la storia di un intellettuale di fronte alla lotta. Ma questa, al contrario dell’altra, è la storia di una non-adesione, d’un rifiuto (nel secondo racconto del libro, La casa in collina; il primo II carcere è una parallela storia di un confinato che non vuol più lottare), vista però con sana lucidità morale e chiaramente condannata, nella severa allusione biblica del titolo come in ogni frase. Pur essendo scritto in chiave d’un solo personaggio e d’un solo problema, La casa in collina oltre che un bellissimo racconto è un « documento » come pochi, con la continua notazione di discorsi e di umori della gente di Torino nel ’43-’44; la Storia, prima ancora che azione e sentimenti, diventa paesaggio.

Arrigo Benedetti, invece, in Paura all’alba (Roma, Documento, 1945) al personaggio « io » lascia fare solo la parte dell’osservatore e dell’annotatore, ed il suo libro è un bel diario d’un forzato « sfollamento » in un paese dell’Appennino con incontri di studenti, ex prigionieri d’ogni esercito, partigiani, tedeschi, fascisti. Ambizioni di documentare la formazione d’un intellettuale attraverso la Resistenza avrebbe il romanzo Manoscritto (Einaudi, 1948), firmato Sebastiano Carpi; ma noi vediamo il protagonista passare solo attraverso disordinati amori, senza convincerci né come moralità, né come stile. Credo d’aver citato tutti i libri più importanti ispirati alla Resistenza armata. Essa compare anche in Pietà contro pietà di Guido Piovene (Bompiani, 1946) ma solo di scorcio, per vivificare d’episodi questo suo, più che romanzo, grosso dialogo o saggio morale.

Qui non riposano di Indro Montanelli, potrebb’esser definito la Iliade del qualunquismo. Mi resta da parlare di tutti i romanzi che han per argomento la lotta antifascista durante il ventennio. Quasi tutti scritti e pubblicati dopo la caduta del fascismo, tranne pochi usciti all’estero: i romanzi di Ignazio Silone che non riescono a trovare in patria la fortuna che ebbero nelle edizioni straniere, i romanzi di Ezio Taddei, e altri che hanno interesse più propriamente politico anche se scritti con gusto e vivezza, come Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu, Le memorie d’un barbiere di Giovanni Germanetto, ecc. Un libro che dovrebbe diventare popolare come il romanzo della resistenza allo squadrismo è Cronache di poveri amatiti (Vallecchi, 1947) di Vasco Pratolini. Forse si può obiettare che gioca troppo la carta della popolarità, del sentimento e del folclore perché ci rimanga impresso come un libro forte e sincero. Ad ogni modo segna un sicuro punto positivo nel bilancio di questa nostra letteratura. La rievocazione satirica e grottesca del fascismo davvero ci voleva, e ce l ’ha data, amara e scettica, ma con un gusto di buona tradizione novellistica italiana Vitaliano Brancati ne II vecchio con gli stivali (Bompiani, 1946).

La formazione umana più ancora che politica, d’un antifascista, è il tema de II compagno (Einaudi, 1947) di Cesare Pavese, ma quest’elemento resta un intervento volontaristico in un romanzo bello soprattutto come storia d’amore e per aver colto il segreto di due città: Torino e Roma. Fascismo e cospirazione entrano pure nel più importante dei romanzi italiani di questi anni: La Romana (Bompiani, 1947) di Al­berto Moravia. Sono visti di scorcio, ma con scoperte storiche ed umane assai preziose: il personaggio dello sbirro Astarita ch’è, come Don Abbondio e Don Ferrante, un personaggio indispensabile a capire molta storia del nostro paese; e quello di Michele, in cui l ’ambigua partecipazione alla lotta di certa media borghesia intellettuale è assai chiaramente analizzata. Il romanzo di Angelo del Boca L’anno del giubileo (Einaudi, 1948) interessa il nostro studio per quel che riguarda la condizione di solitudine e d’incertezza del giovane negli anni del ventennio, tra il mondo ufficiale del fascismo, grottesco ed esoso, e quello appena intravisto della cospirazione, che riesce a dirgli poco perché parla un linguaggio a lui non famigliare. Un libro rozzo ma lodevole, che raggiunge talora insospettati effetti di poesia, è Rotaia (Einaudi, 1946) di Ezio Taddei, vasto documentario dell’Italia sotto il fascismo, intorno al tema della formazione politica d’un giovane.

Il poema dell’uomo solo ed oppresso, della Resistenza intesa prima di tutto come un grande insegnamento di solidarietà umana, ce l’ha dato Silvio Micheli con Pane duro (Einaudi, 1946). Prologo alle tenebre (Mondadori, 1947) di Carlo Bernari, si svolge a Napoli, tra operai comunisti e nobiluomini delatori. L’uomo di Camporosso (Mondadori, 1948) di Guido Seborga, è la storia d’uno scaricatore che il fascismo, la schiavitù sociale, la dittatura spirituale della chiesa portano ai limiti della sopportazione. Uno come gli altri (Einaudi, 1945) di Amedeo Ugolini, un sofferto documento d’una generazione maturata nella lotta, nel carcere, negli interrogatori. In Rancore (Einaudi, 1946) Stefano Terra racconta la storia di un pugno di giovani torinesi che preparano un attentato. Una trattazione a parte meritano i diari dei « lager » tedeschi, innumerevoli, tanto che non posso neppure accingermi a un’enumerazione. Mi limiterò a citare quello che, e credo di non sbagliare, è il più bello di tutti: Se questo è un uomo (Torino, De Silva, 1948) di Primo Levi: un libro che per sobrietà di linguaggio, potenza d’immagini e acutezza psicologica è davvero insuperabile. Anche nel campo più propriamente narrativo abbiamo una testimonianza della deportazione di notevole impegno letterario: Racconto d’inverno (Milano, Uomo, 1945) di Oreste Del Buono; un libretto nitido e intelligente, tra i più belli usciti dalla guerra. Sui « lager » c’è poi una produzione di racconti per cui vale quel che s’è detto sui racconti partigiani: ricorderò quelli di Letterio Savoia, non ancora riuniti in volume.

Sono libri questi ultimi che vanno a disporsi su un filone purtroppo assai fruttuoso alla nostra storia letteraria: quello delle memorie di prigione. Ed a questo proposito troviamo due esempi che interessano ambedue il nostro studio, sebbene d’importanza assai diversa. Non bisogna dimenticare infatti che il più gran successo letterario italiano, e non soltanto italiano, del dopoguerra: Cristo s’è fermato ad Eboli (Einaudi, 1945) è un libro di memorie d’un confinato politico, e porta al fascismo l’accusa più terribile: la descrizione dei paesi più arretrati dell’Italia meridionale. E scritto in carcere è uno dei più grandi libri italiani, scoperto or è poco: e che pure non era stato scritto con intenti letterari, e neppure per farne libro: sono le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci (Einaudi, 1947). Di fascismo e d’antifascismo nelle Lettere, è ovvio, se ne parla poco : pure il più grande libro della Resistenza è questo. Ed è il più grande esempio dell’uomo nuovo nato da questa Resistenza, è sicuramente quello del sereno e fortissimo rivoluzionario sardo. La cultura italiana ha accolto Gramsci con un senso di sbalordimento, e si può dire che non se n’è ancora riavuta. Quanto bene Gramsci s’innesta nella tradizione culturale italiana, tanto sembra agli intellettuali italiani contemporanei incommensurabile il suo esempio, arduo l ’approfittare del suo insegnamento. Perciò l’abbiamo situato in questo studio per ultimo, non per primo. Perché la letteratura della Resistenza non ha fine, come non deve aver fine lo spirito della Resistenza: e Gramsci ha aperto una lunga via.

Italo Calvino

Qui il testo originale

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Alessandro Oricchio

Dottorando in studi politici Sapienza Università di Roma, speaker di Teleradiostereo, giornalista pubblicista iscritto all'Odg del Lazio. Amante dei libri, dei viaggi, del calcio, della lingua spagnola, del mare e della cacio e pepe.

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