Sussurri tra le pagine

“Il diacono King Kong” di James McBride: recensione libro

Case popolari di South Brooklyn, 1969, il diacono Lambkin, detto Sportcoat, punta la pistola e spara in faccia ad uno spacciatore diciannovenne. Tutto ha inizio così, o meglio, é così che tutto finisce.

Il diacono King Kong di James McBride
James McBride

Ironico, spregiudicato, irriverente, James McBride, già vincitore del National Book Award per “The Good Lord Bird”, con “Il diacono King Kong” ci racconta una follia. Un’ordinaria follia, che, come ogni forma di pazzia, ha le sue ragioni e le sue radici perché “tutti nel Causeway avevano un motivo per essere matti” e “c’è gente che deve restare matta per non diventare matta”.

Si delinea, così, l’immagine dissacrante di una comunità chiassosa ed eccentrica, tra i residenti afroamericani, gli ispanici, i mafiosi italiani e i battisti di Five Ends. Persone diverse, differenti culture e molteplici provenienze, ma tutti esseri umani con i propri dilemmi, i propri errori a cui rimediare, i peccati da espiare, i seni da sbirciare in lontananza, i liquori fatti in casa battezzati “King Kong”, i sermoni dai titoli più improbabili e il dolore della mancanza nascosto dietro un muro di litigi, che vanno ben oltre la semplice morte. “Ovunque andasse, loro due litigavano. O almeno lo faceva Sportcoat. I vicini non vedevano Hettie, naturalmente: si limitavano a fissarlo mentre parlava con qualcuno che per tutti era invisibile. Sportcoat non badava a loro quando lo fissavano. Per lui litigare con Hettie era la cosa più naturale del mondo. L’aveva fatto per quarant’anni”.

(2021, DiamondRehab Thailand, Unsplash License)

Sotto una fitta coltre di ironia, McBride cela una realtà più cruda: la tristezza di un bambino di colore del sud cresciuto tra alcol, credenze popolari, superstizioni, sciagure, presagi, sciamane, preti spretati e matrigne disamorate. Un bambino che diventerà un uomo infelice, alcolizzato, incapace di tenersi un lavoro, ma anche in grado di fare un po’ tutto, così come è sempre stato. Eppure basterà poco perchè i tempi cambino, perchè un nuovo genere di uomini prenda posto in una comunità già abbastanza variegata, perchè il nuovo modo di vivere venga dettato da chi solo ieri era un bambino, le nuove regole in mano a giovani che sembrano non avere passato, spacciatori senza futuro, vite sacrificate al dio dei soldi facili e di tutto il resto, in fondo, a chi importa. “Non era un poveretto che veniva dal Sud, o da Portorico, o dalle Barbados, arrivato a New York con le tasche vuote, una Bibbia e un sogno. Non era stato umiliato da una vita trascorsa a raccogliere cotone nella Carolina del Nord, o a trasportare canna da zucchero a San Juan. Non era giunto da una regione povera dove i bambini scorrazzavano in giro senza scarpe e mangiavano ossa di pollo e zuppa di tartaruga, per poi trascinarsi fino in città con dieci centesimi in tasca, felicissimi alla prospettiva di andare a pulire case, svuotare gabinetti e buttar via la spazzatura, coltivando la speranza di un lavoro al caldo da impiegato comunale, o magari addirittura di riuscire a studiare grazie alla generosità della brava gente bianca.”

E se sei il primo poliziotto nero sotto copertura nelle Causeway, in questo mondo non sei un pioniere, sei solo un idiota. Se sei una giovane promessa del baseball, ti conviene puntare ad un gioco più grosso. Se sei un povero pazzo, non lascerai morire l’uomo al quale hai sparato, nè sulle mani e nè sulle ginocchia, perché nessuno dovrebbe morire così. Se cerchi la malattia che affligge il mondo, si chiama avidità e forse ha preso anche te. Se la tua colazione prevede lunghe sorsate di liquore “torcibudella”, lascia la pistola che non ha mai sparato a casa, chiusa in un cassetto e non voltarti. “«Non mi sembra una cosa da me. Non è intelligente far saltare via l’orecchio a qualcuno con un colpo di pistola. Dopotutto ne abbiamo solo due».”

(2021, Khoa Võ, Pexels License)

Spietato, divertente, tagliente e intrigante come un segreto da 3 milioni di dollari. Come un quartiere che é bolgia di sogni ammassati, di pelli dalle diverse sfumature, di sguardi delusi, di sangue, illusioni e vendetta. La follia dei margini. Il margine di un foglio, di una strada, della società: trascurabili spazi vuoti, pieni o vacanti che siano, fastidiose appendici dalla scarsa utilitá. E se a nessuno importa, allora, gli abusi, gli stupri, i riscaldamenti rotti e la vernice al piombo, diventano la normalità. Non resta che lamentarsi delle formiche. “In un quartiere popolare dove tremilacinquecento tra neri e ispanici ammassavano i propri sogni, incubi, cani, gatti, tartarughe, porcellini d’India, pulcini di Pasqua, bambini, genitori, e cugini dal doppio mento di Portorico, Birmingham o Barbados in duecentocinquantasei appartamenti minuscoli, tutti sotto il tallone della straordinaria corruzione dell’Istituto case popolari di New York, il quale, per quarantatré dollari al mese d’affitto, se ne fregava altamente se vivevano, morivano, cagavano sangue o andavano in giro a piedi nudi, purché non chiamassero l’ufficio nel centro di Brooklyn per reclamare… “

James McBride fa uso di una prosa potente, diretta. Parole dal forte impatto, esplosivi combinati per non dire nulla e rivelare tutto. Un rimando continuo a centinaia di argomenti, decine di eventi al limite del possibile, caricature di una realtà che sembra quasi perdersi, per poi ritornare di colpo, crudele, malata, cattiva ed ingiusta. “…mentre a Manhattan gli autobus arrivavano in orario, le luci non andavano mai via, la morte di un unico bambino bianco in un incidente d’auto finiva in prima pagina; mentre versioni fasulle della vita dei neri e dei latini dominavano la programmazione di Broadway, facendo arricchire gli autori bianchi – West Side Story, Porgy & Bess, Purlie Victorious – e così via, l’intera mole della realtà secondo l’uomo bianco si accumulava come una gigantesca, sbilenca palla di neve: il Grande Mito Americano, la Grande Mela, il Grande Kahuna, la Città Che Non Dorme Mai; mentre i neri e i latini che pulivano gli appartamenti, portavano fuori la spazzatura, scrivevano la musica e riempivano le galere di dolore dormivano il sonno degli invisibili e funzionavano solo come colore locale.”

(2017, Samueles, Pixabay License)

“Il diacono King Kong” é come un gioco di parole, con la sua leggerezza da non prendere sotto gamba. Toccante, doloroso, divertente ed emozionante, tiene legati alle pagine in un modo piacevolmente curioso. Un libro che mi ha stupita con la sua capacità di raccontare una storia incredibile, a partire solo da una benedizione “possa Dio portarti in palmo di mano”. Dentro c’è un po’ di tutto: la questione razziale americana, la povertà dei sobborghi fuori dal sistema, la piaga della droga, la chiesa che non rende per forza uomini di Dio, i giovani privi di figure di riferimento, gli anziani abbandonati al proprio dolore, un mistero da risolvere, l’avidità che corrompe ogni uomo ed un nuovo dolce amore. Il tutto è condito da un’ilarità alla quale non è possibile resistere, mentre in sottofondo riecheggia un’unica domanda: esiste ancora una via d’uscita?. “Sorella Gee guardò i suoi vicini, riuniti intorno a lei, e in quel momento li vide come non li aveva mai visti prima di allora: erano briciole, ditali, granelli di zucchero su un biscotto, invisibili puntini sparpagliati sulla griglia delle promesse, che di tanto in tanto comparivano sui palcoscenici di Broadway o nelle squadre di baseball accompagnati da slogan come «Ci devi credere», quando in realtà non c’era niente da credere a parte il fatto che un uomo di colore in una stanza va bene, due è come venti, e tre vuol dire chiudere bottega e andare tutti a casa; tutti lì a vivere il sogno newyorkese nelle Cause Houses, con vista sulla Statua della Libertà, un gigantesco monumento di rame a ricordare che quella città era un tritacarne che riduceva in briciole i sogni dei poveri, peggio di qualunque sgranatrice di cotone o campo di canna da zucchero del vecchio Sud. E adesso era arrivata l’eroina, a rendere i loro figli di nuovo schiavi del potere di un’inutile polvere bianca.”

I loro occhi si incontrarono, e in quel momento a Jet parve di guardare negli abissi dell’oceano. Lo sguardo del vecchio era profondo, distaccato, tranquillo, e all’improvviso Jet ebbe quasi l’impressione di galleggiare in un tratto di mare tranquillo mentre onde gigantesche si agitavano, si gonfiavano e sollevavano le acque tutto attorno a lui. Ebbe una rivelazione improvvisa. Siamo uguali, pensò. Siamo in trappola.

“Il diacono King Kong” di James McBride, edizione Fazi Editore.

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Angela Finelli

Classe 1987. Nata a Napoli, tra i vicoli e l'odore del ragù lasciato a "pappuliare" a fuoco lento già dall'alba. Amante dei libri da sempre, della buona cucina e delle mete insolite. Dipendente dal caffè, dalle risate spontanee e da quella punta di follia che rende la vita imprevedibile. Fiera sostenitrice del potere delle parole e dei sussurri nascosti tra le righe, quelli che lasciano un'impronta nella memoria e i brividi sulla pelle.

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