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“Medusa” di Martine Desjardins: recensione libro

“Medusa. In greco antico significa “protettrice”. Ma non è per questo che le sue sorelle le danno questo soprannome. Medusa è la vergogna della famiglia, qualcosa che mina la rispettabilità conquistata e l’apparenza di perfezione.

È un’esistenza difettosa da nascondere, da umiliare, da disconoscere. Medusa ha una rara malformazione congenita agli occhi, ha capelli “folti, ribelli e intricati di nodi, di una consistenza squamosa che irritava le dita resisteva le forbici”. Medusa ha un aspetto orribile. È per questo che la chiamano così, somiglia a quelle creature marine urticanti. A furia di dirglielo Lei ci crede e non si specchia mai, non mette in dubbio il giudizio altrui, si fida del sangue.

Il seme della vergogna ha attecchito dove di amore non ce n’è mai stato.

“Stava lì l’origine della vergogna per le mie Avversioni: in ciò che mia madre mi aveva trasmesso insegnandomi a odiarle, a nasconderle, a temere gli specchi e a vivere lontano dal resto dell’umanità.”

E, proprio come il significato del nome che porta, protegge. Protegge gli altri dalle sue mostruosità, a testa china, coprendole con ogni mezzo, rendendosi invisibile e remissiva. Protegge se stessa dai suoi stessi occhi chiamandoli in ogni modo possibile tranne che con il loro nome: abominazioni, adiramenti, infamità, furie, ignobilità, cataclismi, detestabilità, esecrazioni, spaventosità.

La vergogna è una goccia continua che cade sulla testa nello stesso punto.

Ripudiata e confinata in un istituto per ragazze malformate, continua il suo percorso grondante di umiliazioni, di schiavitù, di ipocrisia malata, di sottomissione, di sangue. Un luogo isolato dove i benefattori, gente altolocata, rispettabile, integra all’apparenza, danno sfogo alle “distorsioni dei loro vizi personali”, alla loro vera natura orrorifica.

“Col senno di poi mi rimprovero di essermi prestata così docilmente a quei giochi pericolosi con uomini senza indulgenza, che non mi ispiravano alcuna fiducia e dai quali non potevo sperare di trarre un po’ d’affetto. Ma bisogna capire che, dopo un’infanzia passata ad annoiarmi sempre da sola, avevo finalmente la possibilità di avere dei compagni. Finché la resina mi tratteneva nella sua languida amoralità, scoprivo tutte insieme le molteplici configurazioni del gioco, le singolarità del caso, le gioie della competizione, la spensieratezza del riso… Lo stupore mi aiutava a superare l’ingiustizia e la perversità delle regole. Ciò che mi turbava di più era il fatto di provare un piacere fisico durante le sevizie. Difatti accoglievo a braccia aperte gli istinti primitivi delle mie Sudicezze, la loro sensualità sbrigliata e le vili inclinazioni. L’indomani, però, mi svegliavano le trombe del ricordo e, costernata dalla vergogna, seppellivo la testa sotto il cuscino. Mi facevo orrore.”

La vergogna è un sentimento di annullamento che crea un circolo vizioso di sensi di colpa, di paure, di mancanza di autostima, di sottomissione al giudizio.

Si può sconfiggerla? Il libro ci dice che si può, con la consapevolezza, l’accettazione, il coraggio e la determinazione di mettere in discussione i giudizi altrui. Che può bastare uno sguardo diverso per aprirci gli occhi, per scoprire che certe mostruosità, per altri, possono essere bellezza.

“È possibile che un semplice sguardo ci apra gli occhi? Quello che mi hai rivolto ha scosso ogni mia certezza. Non avevo intravisto la possibilità che le mie Piaghe d’Egitto potessero anche non essere rivoltanti, né che si potesse considerarle appannaggio della femminilità. La vergogna mi aveva imposto il suo giogo al punto che mi ero sempre conformata all’impressione degli altri, avevo accettato il loro giudizio e assimilato quell’avversione senza rimetterne in discussione la fondatezza. Avevo sopportato il rossore alle guance, la cappa di piombo che mi schiacciava i polmoni, il cuore che mi precipitava dolorosamente in fondo al petto a ogni umiliazione. Alienata dalla mia natura, l’avevo offuscata nascondendola dietro i capelli, le bende, gli occhiali.

Sin da bambina la vergogna mi aveva fatto da coscienza. Aveva esercitato un controllo sulla mia vita, determinato le mie scelte, sovrinteso a ogni decisione. La costrizione del mio libero arbitrio, l’annientamento del mio amor proprio, l’odio feroce per la mia persona non mi avevano soltanto resa orba, enucleata, accecata: mi avevano tagliato le ali, legato le mani, segato le gambe. La vergogna mi pietrificava perché mi aveva plasmata. Era un’avversaria più debilitante delle mie Avversità ed era ora di liberarmi dalla sua tirannia.”

Ma ci suggerisce anche che guarire dalla vergogna è un sentiero lastricato di trabocchetti e pieno di deviazioni. Basta un attimo per trasformare queste mostruosità in potere da esercitare, un attimo trasformare la vergogna in progetti impietosi di vendetta. Un attimo separarsi dal significato greco per aderire al mito.

“Siamo sempre il mostro di qualcun altro.”

“Medusa” di Martine Desjardins, edizione Alter Ego Edizioni. S(qui)libri.                                                           

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