Leggere con Gusto

“Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg e la torta Gressoney ai frutti di bosco

Dopo 1 anno di sospensione forzata (eh, gli tsunami della vita…), ho voluto inaugurare il mio ritorno e quello della rubrica Leggere con gusto con una scrittrice, Natalia Ginzburg, protagonista del panorama culturale italiano – a ottobre si è ricordato il trentennale della morte – e sulla quale Sandra Petrignani ha scritto nel 2017 una bella biografia-ritratto “La Corsara”. Il romanzo del quale vi parlerò è un libro che (quasi) tutti noi abbiamo letto a scuola ma in quanto lettura imposta magari a molti ai tempi non era piaciuto: Lessico famigliare”.

Pubblicato da Einaudi nel 1963 e vinto il Premio Strega nello stesso anno, il romanzo racconta la storia dei Levi, famiglia borghese ebraica, intellettuale e antifascista trapiantata a Torino tra i primi anni ’30 e i primi anni ’50 del Novecento.

Il libro è introdotto da un’avvertenza dell’autrice “luoghi, fatti e persone sono reali”. E continua: “ho scritto quello che ricordavo” ma “penso si debba leggerlo come un romanzo, che narra la storia della mia famiglia”.

Una famiglia originale quella dei Levi: il capofamiglia Giuseppe Levi, di origine triestina, professore universitario burbero e collerico ma dalle tonanti risate, amante della montagna, a scuola chiamato Pom (Pomodoro) a causa della chioma rossa e nomignolo che poteva ancora usare solo la moglie; sua madre che non viveva con loro ma li seguiva in montagna in villeggiatura, che schifava tutti gli animali e che “provava, per quelli che non erano ebrei come lei, un ribrezzo come per i gatti”; la moglie Lidia Tanzi, milanese, cattolica, ottimista, allegra, amante di musica e letteratura; i fratelli della scrittrice Gino, Alberto, Mario, la sorella Paola (che sposerà Adriano Olivetti). E l’ultima, la piccola di casa, Natalia, esclusa da questo mondo di grandi, che sarà la voce narrante del libro.

Cosa caratterizza la famiglia Levi ma, in fondo, ogni famiglia? Il linguaggio, utilizzato dai suoi componenti come strumento identitario. Come nell’autorevole precedente letterario rappresentato da “Il Giardino dei Finzi Contini” di Giorgio Bassani, nel quale i due fratelli Alberto e Micòl utilizzavano tra di loro un linguaggio segreto e inventato, “il continico”, anche in Lessico Famigliare ci sono alcune parole che solo i Levi possono comprendere: ”sempio e sempiezzi, negro e negritura, sbrodeghezzi, malagrazie, potacci” che ama utilizzare il padre, oppure ”spussa, baslettona” usate invece dalla madre.

Il linguaggio, il lessico famigliare, funge da collante ma anche da madeleine:

“Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire: ‘Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna’ o ‘De cosa spussa l’acido solforico’ per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole”.

Unica e originale casa Levi non solo per il linguaggio ma anche per l’assidua frequentazione dei più autorevoli rappresentanti del mondo intellettuale del tempo: Vittorio Foa, Adriano e Camillo Olivetti, Filippo Turati, Cesare Pavese, Eugenio Montale (marito della zia Drusilla, sorella di Lidia Tanzi, sposata Levi), solo per ricordarne alcuni.

La Ginzburg, attraverso quello che Giacomo Magrini, critico e suo più autorevole lettore, definì il principio formale del romanzo, l’oltranza del riserbo, pur nell’apparente distacco della narrazione mette da sfondo alla quotidianità di casa Levi anche la Storia: la guerra, le leggi razziali, le deportazioni. Ma la scrittrice non racconta mai di sé né di come abbia vissuto gli eventi più dolorosi (le torture subite dal marito Leone Ginzburg, ucciso nel carcere di Regina Coeli): qui la reticenza diventa ancora più rigida.

Narrato in prima persona seguendo il flusso della memoria e con un modello autorevole, Proust, del quale la Ginzburg fu la prima traduttrice in Italia, con una struttura apparentemente impalpabile – la corrente dei ricordi -, con uno stile che a un lettore inesperto potrebbe apparire semplice e dimesso e che  in realtà è iper letterario e controllato, la scrittrice realizza con sottile e affettuosa ironia un romanzo nel quale, pur nell’eccentricità della famiglia Levi, ogni lettore potrà immedesimarsi. Nella consapevolezza della fugacità del tempo – non ci siamo ritrovati tutti in un attimo dal mondo dell’infanzia a quello degli adulti? – basta una frase, una parola tipica che usavamo con genitori, con i fratelli e le sorelle, per ritrovarci all’improvviso di nuovo bambini.

È la fascinazione delle parole e della letteratura, è l’incanto lieve ma profondo di Lessico Famigliare. Leggetelo, rileggetelo, regalatelo.

Lessico famigliare di Natalia Ginzburg

Anno prima pubblicazione: 1963

Anno edizione Supercoralli: 2014

Editore: Einaudi, Super ET

Pagine: 246

La ricetta: torta “Gressoney ai frutti di bosco”

Il romanzo “Lessico Famigliare” si apre in uno dei luoghi più intimi per ogni famiglia: la tavola del pranzo. La cucina esprime la cultura di chi la pratica, è depositaria delle tradizioni culturali e dell’identità di un gruppo e ciò è tanto più vero per la minoranza rappresentata dagli Ebrei. Invece, in un romanzo familiare come quello della Ginzburg, adatto a rappresentare le abitudini alimentari della casa, i riferimenti al cibo sono pochissimi. D’altronde, la famiglia Levi era sostanzialmente laica, illuminata, i valori sono rappresentati dalla politica, dalla lotta antifascista, dalla scienza.

Quindi, anche per l’approssimarsi delle feste, ho scelto di proporvi una ricetta – la torta “Gressoney ai frutti di bosco” preparata da Natalina, la governante di casa Levi, che l’aveva imparata dalle donne di Gressoney quando seguiva i Levi in villeggiatura in montagna.

Torta Gressoney ai frutti di bosco, foto dal sito www.blog.giallozafferano.it

Si tratta di una torta stile “nonna Papera”, adatta per bambini e adulti, ottima sia per la colazione che come fine pasto.

Ingredienti:

2 cestini di lamponi, 2 cestini di mirtilli (va bene anche la frutta surgelata che trovate al banco frigo dei supermercati); 250 g di farina 00; 250 g di mascarpone; 100 g di farina di mandorle (o l’equivalente peso di mandorle da tritare); 200 g di zucchero; 4 uova grandi (preferibilmente biologiche); 100 ml di latte intero; 1 bustina di zucchero vanigliato; zucchero a velo q.b.; la buccia di un limone biologico; sale fino q.b., un po’ di burro (per la tortiera).

Preparazione:

Portare quasi a bollore il latte con la buccia di ½ limone. Miscelare in una ciotola la farina 00 e quella di mandorle, il lievito e l’altra metà della buccia di limone grattugiata. In un’altra ciotola mescolare il latte e il mascarpone, fino a far risultare la miscela cremosa. Nella ciotola (o in una planetaria), montare le uova intere con un pizzico di sale e zucchero: devono risultare spumose, quasi bianche. Unire un po’ per volta la farina miscelata e la crema al mascarpone.

Foderare una tortiera con la carta da forno leggermente imburrata, versarvi il composto, livellare bene e ricoprire l’impasto con i lamponi e i mirtilli (che possono in parte anche essere miscelati all’intero impasto). Cuocere in forno preriscaldato a 180° per mezzora. Togliere dal forno, lasciare raffreddare la torta e spolverarla con zucchero a velo vanigliato. Può essere servita accompagnata da panna montata, con una coulisse di frutti di bosco o di lamponi al vino bianco o, più semplicemente, decorata con qualche frutto di bosco di accompagnamento.

Leggere con Gusto, la rubrica che parla di libri e cibo. 

Michela Scomazzon Galdi

Michela Scomazzon Galdi, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine dei Giornalisti del Lazio, mi occupo da oltre 20 anni di comunicazione e organizzazioni eventi nel settore della cultura. In anni più recenti ho scelto di lavorare “per le donne e con le donne” e aiuto le artiste, in particolare quelle emergenti, a promuovere le loro opere e i loro progetti (libri, mostre d’arte, piccoli festival di cinema ecc.) attraverso il supporto di una comunicazione a colori per contribuire insieme a diffondere bellezza nel mondo. Ho lavorato tanti anni per il Dialogo interculturale, anche attraverso un Festival di cinema e cultura ebraica da me ideato e del quale sono stata Direttrice artistica e organizzativa per 10 anni. Pasionaria, salvata dai libri, leggo, scrivo, fotografo (soprattutto la mia amata Roma), adotto meticci e sperimento ricette di cucina. Le mie parole guida nella professione? Cultura, Bellezza, Donne, Diritti, Colori. Il mio mantra professionale e di vita? Mettici più cuore e meno cervello.

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